Editoriale
Alessandro Viale
Alessandro Viale
Siamo in un pozzo, in fondo. E manco la poesia di poterlo usare da cannocchiale per guardar le stelle.
Come strozzati in gola.
E lo stare lì nello stretto riporta alla memoria un ricordo tanto lontano, caldo. E insieme mille cose che si mischiano della vita.
Un numero di Diastema sull’Europa, preceduto da un black out emotivo e intellettuale. Crisi di identità, di mezza età, di pericoli e cose non successe più. Quindi ci siamo trascinati, cercando una chiusura, e poi le chiusure arrivano prima o poi se non si ha fretta.
Dicevo, l’Europa.
L’Europa è un’immagine per me, che da bambino tante volte ho attraversato il tunnel del Tenda. Per andare di là, in Francia, a trovare gli zii e i cugini che stavano (e i sopravvissuti ancora ci stanno) fra St Dalmas e Casterino. E quel tunnel lì era come viaggiare nell’iperspazio, qualcosa di cristallizzato nei ricordi e che quindi nel tempo perennemente presente si stratifica e diventa altro, accumulandosi.
Era all’epoca veder cambiare quel confine, prima presidiato da polizia e carabinieri da un lato, gendarmerie dall’altra. E richieste di documenti, e mio padre che parlava un francese, che già mi faceva ridere anche se io il francese lo sapevo meno di lui. Poi sempre meno li chiedevano i documenti, si passava e loro ti guardavano, come se conoscessero tutti quelli che transitavano. Non capivo.
3182 metri è quel traforo, e prima sale e poi scende. Da bambino il gioco era aspettare il punto in cui salita e discesa si incrociavano. Perché era l’unico punto in cui potevi vedere la luce da entrambi i lati, e allora era prima un guardare dietro e avanti alla macchina come a connettere due luoghi, due nazioni, due storie.
E mio padre mi raccontava quasi sempre la storia di quando lui era ragazzino e faceva il pastore transumante, e portava le pecore in quel tunnel. Le pecore mentre che salivano, luce alle spalle, erano intimorite dal buio in fronte a loro, e non si muovevano. Andavano incitate con urla, e i cani. E andavano su lente lente. Fino a quel punto lì, in cui il buio davanti a loro diventava una luce lontana, la Francia. E allora iniziavano a correre, per uscire più in fretta possibile, i cani passavano avanti per rallentarle. Perché le pecore avevano in testa di rivedere la luce del sole francese.
Quel traforo negli anni poi, di frontiere aperte per chi ha la pelle chiara, è stato poi un passaggio facile. Poi i lavori, la manutenzione, il traffico sempre più intenso. Un venti anni fa ci hanno messo un semaforo. Quindi se ti andava male dovevi stare fermo da un lato per venti minuti e aspettare il tuo turno. Han deciso quindi di farne il famoso “raddoppio”, fare un altro tunnel. Facendola breve ci son state ruberie e robe dal sapore losco e vagamente mafioso per anni. E il raddoppio che doveva essere finito un paio di anni fa, manco ancora è realmente iniziato.
Nel 2020, anno funesto in ogni sua parte, una tempesta improvvisa ha distrutto la valle di là del tunnel. La valle dei miei zii e cugini. Stravolgendone la vita, la geografia. Tirando giù ponti, pezzi di paese, vite intere.
E nell’alluvione l’acqua del fiume Roya si è portato via il cimitero di St Dalmas, e ha portato giù tutti i corpi, scheletri e ossa, bare e marmi. Un fangoso flusso che s’è portato via tutto senza fermarsi, fino al mare di Ventimiglia altro confine europeo, dove oggi più di ieri si dice che sei bianco puoi passare con la gendarmerie che ti guarda come se pure loro conoscessero tutti quelli che passano di lì.
E in quel magma devastante c’erano anche i miei cari zii. Mi dicono che han trovato delle ossa qualche settimana fa, forse son loro. Adesso ci saranno esami del dna e cose così, per capire meglio.
Quella sera lì, quella dell’alluvione, mia cugina che non ci sente molto bene è andata a dormire che stava solo piovendo un po’. S’è addormentata tranquilla. E al mattino, sul presto, è uscita per andare a lavorare. Aveva qualche strana sensazione, s’è fatta il caffè e mangiato due biscotti. Messa la giacca a vento è uscita. E fuori c’era l’apocalisse. Il fiume aveva portato via tutto attorno a lei, il giardino era un ammasso di detriti e aqua, la strada scomparsa. La casa rimaneva in equilibrio su una roccia. Lei ferma, sbigottita, attonita.
Sono strati di ricordi, vite, storie, e di morte.
Diastema#3 non è dedicato a nessuno in particolare, ma a tutti quelli che han perso la terra da sotto i piedi.
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Il progetto grafico è di Tundra. Un grazie speciale a Cecilia.