Europa Lorem Ipsum

Maria Clara Restivo

Pensavo non avrei avuto problemi a parlare di Europa. Quando poi è stato il momento, mi è sembrato che non avessi più niente da dire. Il 2020 me l’aveva portata via, l’aveva spostata più in là. Adesso mi appare lontana come qualcosa che prima mi spettava e ora non più.

Alla stessa domanda, prima, probabilmente, avrei risposto raccontando due episodi accaduti a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, forse per questo la mia mente li fonde in un tutt’uno, anche se a cambiare nel ricordo sono soprattutto le stagioni.
Il primo si colloca nei giorni tra Santo Stefano e Capodanno; ci incontriamo a Pordenone, partiamo in tre diretti in Slovenia. Gli altri che viaggiano con me sono di quegli amici che vedi una volta l’anno, ma che sono stati così importanti per un periodo, che alla fine restano preziosi sempre allo stesso modo. Claudia, che pensa che tutto si possa fare, quando si vuole; Luca che prova solo affetto sincero, per le cose e per le persone. O quello o niente.
Appena prima del confine, Luca si accorge di non avere con sé il portafoglio, né soldi né documenti. Una cosa che dopo i venticinque anni non si fa. Prima è la mamma a ricordartelo, dopo non si fa e basta. Altrimenti succede come a Luca, ci si sente in colpa e si chiede scusa centinaia di volte. A me e a Claudia non importa, lo adottiamo volentieri in questo gioco di famiglia difforme.
Al confine bisogna fermarsi e comprare un tagliando che permette la circolazione libera sulle autostrade slovene. Luca tace, ha gli occhi molto scuri, sembrano incollati per quanto li tiene fermi.
Passiamo il confine senza problemi, inforchiamo questa lunga strada che spacca a metà le montagne che sono di un verde che a me sembra il più scuro e brillante dei verdi, mi guardo indietro: la sagoma grande di Luca schiacciato nell’abitacolo, le montagne e la strada grigio chiaro sulla quale siamo appena passati. Sembra un viaggio iniziato anni fa, il proseguimento naturale dell’andare. Luca guarda fuori, la mano appoggiata sotto al mento. Non c’è nient’altro, non serve nient’altro.

Ho sentito di nuovo l’Europa l’estate successiva, durante un cammino che feci partendo da Gorizia.
Percorriamo di qua e di là il confine fino a raggiungere Tolmino, Caporetto per poi affrontare le montagne su cui è stata combattuta la grande guerra. Troviamo molti cimeli, attorno ai sentieri: monete, proiettili, pezzi di oggetti che erano cose di cui oggi rimane soltanto una parte. In letteratura è la sineddoche; nella vita non saprei, forse la dimenticanza. È strano dover affrontare la storia senza il muro di vetro delle teche, senza un libro. E gli autoctoni convivono con questo, a parlare con loro ci accorgiamo che percepiamo una distanza differente da quegli eventi, per loro sono più vicini nel tempo, una faccenda quotidiana. Il confine, lì dove non ci sono le strade e non c’è passaggio, è solo un cartello verticale o una sbarra alzata, lascia passare tutti, come se quanto è accaduto prima non contasse più o contasse di meno. Scriviamo lettere, le lasciamo dentro alle cassette delle poste con un indirizzo al quale rispondere. Facciamo domande alle persone. Quella è una zona di minoranze, comunità incastrate dalla parte sbagliata della linea o semplicemente appoggiate in quell’angolo dalla storia. Chiediamo come ci si sente, chiediamo perché della Prima guerra mondiale non sia rimasta sufficiente memoria. Nessuno rispose.

Se la richiesta fosse arrivata prima della pandemia, dunque, avrei risposto qualcosa del genere. Aumentando la narratività, aggiungendo particolari utili, avrei raccontato l’Europa con la familiarità che provo o che forse provavo nei suoi confronti. E con le sue zone d’ombra, tutte le cose da non dire, che spesso stanno proprio ai confini.
Di mezzo però qualcosa è avvenuto e il mio concetto di casa e di agio si sono rimpiccioliti in piccole biglie, le tengo in tasca. Il moto più spontaneo sarebbe di dare la colpa di questa distanza a quanto si è abbattuto su di me, su noi tutti, senza che si potesse davvero reagire. Se questo sentimento fosse visibile, saremmo tutti Lady Dust, coperti di polvere fin dentro gli organi. La nostra polvere, però, non si vede, limita i movimenti e il respiro ma non si vede e si può pensare, a volte, che non ci sia. Ma c’è. E copre, sotterra, secca.
Ci si vorrebbe seppellire, accelerare il processo. Ma in questo non sentire ho ritrovato come delle fiamme di sensazione, che non sono ricordo ma qualcosa che si sente chiaramente, una nota musicale della durata di un attimo e poi più, ma inconfondibile, era lì un attimo fa.
Mi pesa fare quest’ammissione, accettare l’esistenza di una percezione.
Ma come altro spiegarlo, quando in macchina guardi fuori e non vedi niente, ché le strade sono vuote e i palazzi fermi, ma d’un tratto si accende quel preciso sentore di quando si scendono i gradini dall’aereo, passi incontrollati, raggrinziti dall’aria condizionata e dalla gente, e si sente parlare una lingua diversa e tutto assomiglia a casa tua ma è un altro posto, un’altra casa? Quella sensazione cristallina che si attacca allo sterno e un po’ lo solleva, che è l’inizio della vacanza ma soprattutto l’inizio della scoperta e gli occhi si attaccano dappertutto? Tutto perché non conoscono, come al parcheggio dell’aeroporto che è solo un parcheggio, ma poi passa una settimana e tornarci fa un effetto diverso, più pieno, di “lì è dove, lì e dove”.
Succede in macchina, le poche volte che ho dovuto usarla nel corso di questo anno. O in fila, una fila qualsiasi, arresti obbligati. Ultimamente questi momenti mi sorprendono sempre più spesso. Meno faccio, meno provo, più avverto queste sensazioni in modo nitido e, talvolta, riesco a farle durare. Da dove vengono? E in quale parte di me si conservano? Cosa c’è ancora sotto la polvere?

Per tutta la strada fu straordinariamente allegro. Fischiettava, soffiava con le labbra, avvicinandosi il pugno alla bocca come se suonasse la tromba e alla fine intonò una canzone insolita a tal punto che lo stesso Selifan ascoltava, ascoltava e poi scuotendo appena la testa disse: “Veh, il signore come canta”. Era già da un bel pezzo calato il crepuscolo, quando arrivarono in città. L’oscurità si era del tutto sostituita alla luce, sembrava che fossero stati sostituiti anche gli oggetti stessi. La sbarra variopinta aveva preso un certo colore indefinito, i baffi del soldato che era nella garitta sembrava che stessero sulla fronte, appena al di sopra degli occhi e di nasi era come se non ce ne fossero. Il fracasso e le spinte fecero capire che la carrozza aveva cominciato ad andare sul lastrico. I fanali non erano ancora stati accesi, iniziavano solo qua e là a illuminarsi le finestre delle case e nei vicoli e negli angiporti si succedevano scene e conversazioni non dissimili da quelle che avvenivano a quell’ora in tutte le città dove c’erano molti soldati, molti vetturini, molti operai e molti di quegli esseri particolari, all’aspetto signore con scialli rossi e scarpe e niente calze, i quali come pipistrelli si aggirano intorno agli incroci.
Cicickov non li aveva notati e non aveva nemmeno notato molti impiegati margini con la canna da passeggio, i quali probabilmente dopo aver fatto una passeggiata fuori città ritornavano a casa. Di tanto in tanto arrivava fino al suo orecchio qualche esclamazione femminile, sembrava: “Menti, ubriacone! Non gli ho mai permesso un’insolenza del genere. Fermo con le mani, screanzato! Andiamo piuttosto dal commissario che ti faccio vedere”. In breve, quelle parole che si rovesciano come pece su qualche ventenne sognante quando, di ritorno dal teatro, ha nella testa una via della Spagna, la notte, incantevole immagine femminile, la chitarra e dei riccioli.
Che cosa non c’è, che cosa non si agita nella sua testa? È al settimo cielo e l’hanno invitato a casa di Schiller e all’improvviso risuonano sopra di lui come un tuono le parole fatali e egli vede che è sulla terra, di nuovo, e anzi nella piazza del fieno e perfino vicino a un’osteria e di nuovo, come tutti i giorni, ricomincia a folleggiargli davanti la vita.

La risposta l’ho trovata soltanto qui, per ora. Nelle parole di Gogol, al sesto capitolo de Le anime morte. Tornare a sentire. E ritrovare a poco a poco un po’ di casa.

Maria Clara Restivo è cresciuta sopra a una stazione. Ha passato i trent’anni e non è ancora riuscita a trovare il posto giusto dove abitare. Per ora la sua casa è a Torino, tra i due fiumi. Si occupa di scrittura e di parole, proprio in questo momento sta ultimando il suo secondo romanzo.